Quando ascolto musica con i miei genitori e chiedo loro quale artista o band desiderano ascoltare, la risposta è quasi sempre la stessa i “Rolling Stones”. E io ne sono ovviamente felice, per cui corro a prendere uno dei loro vinili, alzo il volume e inizio a sorridere. Sì, perché i Rolling Stones hanno la capacità di farmi sorridere sempre, anche quando sono nervosa o distratta.
Sono tanti i loro album che amo e tra questi c’è sicuramente “Exile On Main Street”.
Pubblicato il 12 maggio 1972, occupa la settimana posizione della classifica dei 500 migliori album di tutti i tempi stilata dalla rivista “Rolling Stone”.
Registrato nella villa del chitarrista Keith Richards in Francia, in stile Belle Époque a Villefranche-sur-Mer, vicino a Nizza, l’album contiene 18 tracce dal sapore rock, blues, ma anche country (come “Sweet Virginia”), soul e gospel (“I Just Want to See His Face” e “Loving Cup”) .
Nonostante si tratti forse del loro disco più completo e trascinante, all’inizio sembrò non accorgersene nessuno, forse perché pubblicato poco tempo dopo altri capolavori, come “Sticky Fingers”.
A tal proposito, uno dei più grandi critici discografici della storia del rock, Lester Bangs, inizialmente stroncò l’album, poi se ne pentì e lo omaggiò con queste parole: “Exile on Main Street è uscito solo tre mesi fa e praticamente mi sono fatto venire l’ulcera e anche le emorroidi cercando di farmelo piacere in qualche modo. Alla fine ho lasciato perdere, ho scritto una recensione che era una stroncatura quasi totale ed ho cercato di levarmelo dalla testa. Un paio di settimane dopo sono tornato in California, me ne sono procurato una copia per vedere se per caso era migliorato col tempo, e mi ha fatto cadere dalla sedia. Ora penso che forse sia il disco più bello degli Stones in assoluto.”
Ma in questo articolo non è del contenuto dell’album che vorrei scrivere, ma della copertina, che, per un album così importante, non poteva che essere affidata ad uno dei più grandi fotografi del Novecento: Robert Frank.
Frank nacque a Zurigo nel 1924, ma si trasferì negli Stati Uniti nel 1947, lavorando inizialmente come fotografo di moda per la rivista Harper’s Bazaar e poi come freelance.
Nel 1955 ottenne una borsa di studio dalla Fondazione Guggenheim e utilizzò il denaro per realizzare il progetto “The Americans”: qualche mese dopo partì a bordo di una Ford Business Coupe e iniziò il suo viaggio in 48 stati degli Stati Uniti, in cui fotografò i volti, le strade, le piazze, i bar e i negozi, fino a circa 27 mila fotografie.
Successivamente raccolse le migliori 83 nel libro The Americans con una prefazione dello scrittore Jack Kerouac, padre della movimento beat, di cui Frank fu molto amico. Queste le parole di Kerouac:
«Quella folle sensazione in America, quando il sole picchia forte sulle strade e ti arriva la musica di un jukebox o quella di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio in quarantotto stati su una vecchia macchina di seconda mano».
Ed è proprio da The Americans che è stata tratta lo scatto di copertina di “Exile On Main Street”, realizzato in un negozio di tatuaggi di New York. Questa è lo scatto originale:
Ma facciamo un passio indietro.
Nel 1972, Mick Jagger si rivolse a Frank chiedendogli di raggiungerli nella villa di Bel Air mentre terminavano l’album. Jagger voleva che la copertina ritraesse la band come dei fuorilegge in fuga che utilizzavano il blues come arma contro il mondo, dunque doveva riflettere questa sensazione di isolamento e al tempo stesso di entusiasmo per qualcosa di nuovo.
Inizialmente Frank pensò di ritrarli in fuga verso le strade di Main St. a L.A. e in effetti le foto realizzate sono tutte sul retro dell’album:
Qui alcuni video di quelle sessioni:
Tuttavia, la sua foto del negozio di tatuaggi di New York attirò l’attenzione di John Van Hamersveld, grafico e illustratore che si è occupato di assemblare le fotografie e i video e che aveva già collaborato con i Beatles e Jimi Hendrix.
Hamersveld rimase impressionato dalla foto di Frank, che ritenne perfetta per l’album e decise di trasformarla nella famosa copertina.
A supporto di “Exile On Main Street”, Robert Frank girò anche il documentario “Cocksucker Blues” che narra il tour dei Rolling Stones attraverso il Nord America nel 1972. Un tour molto atteso poiché la band mancava dal suolo statunitense dal 1969, in seguito ad una tragedia avvenuta all’Altamont Free Concert: un fan di colore, Meredith Hunter, fu accoltellato e picchiato a morte da Alan Passaro, membro degli Hells Angels, durante l’esibizione degli Stones.
Il documentario di Frank risultò incredibilmente realistico, grazie anche alla scelta di lasciare diverse telecamere in giro, in modo che chiunque dell’entourage potesse prenderle in qualsiasi momento e iniziare a girare.
Ciò permette a chi guarda la pellicola di assistere a feste nel backstage, uso di droghe, varie pazzie dei roadie e, soprattutto, gli Stones completamente liberi da qualsiasi scrupolo. In una delle scene, ad esempio, è possibile vedere una groupie in una stanza di hotel mentre si inietta una dose di eroina.
Non stupisce, dunque, che “Cocksucker Blues” sia circondato da un alone di leggenda, soprattutto circa la sua distribuzione. Oltre alla Decca, l’etichetta discografica alla quale la band sarebbe stata legata ancora per pochi mesi (e a cui è proprio dedicato il brano “Cocksucker Blues”), furono gli stessi Stones a non voler esporsi in un modo così crudo. Decidero quindi di rivolgersi al giudice ed ottennero un’ordinanza che permetteva la proiezione del film solo in presenza di Robert Frank (e non più di quattro volte all’anno).
Ma i tempi sono cambiati e da un po’ di anni è possibile trovare l’intero documentario su YouTube.
Robert Frank fu dunque una figura di estrema importanza per la carriera dei Rolling Stones e, in generale, per la storia della fotografia.
Il suo stile era molto diverso da quello che si poteva vedere in quegli anni nelle varie riviste del settore. I suoi ritratti erano sfocati, le fotografie erano spesso mosse e caratterizzate da tagli apparentemente casuali.
Non a caso Frank fu rifiutato dall’agenzia Magnum Photos e dalla rivista LIFE, la più autorevole per i fotografi americani, perché i suoi lavori erano ritenuti troppo distanti dalle richieste di una narrazione lineare e immediata.
Frank, in una lunga intervista sul New York Times Magazine, disse «Lascio a voi la scelta. Le mie foto non hanno un inizio o una fine. Stanno nel mezzo».
Vi lascio con altre parole della bellissima prefazione di Kerouac, che personalmente rileggo ogni volta che decido di perdermi nuovamente tra le fotografie di questo capolavoro:
“Con l’agilità, il mistero, il genio, la tristezza e lo strano riserbo di un’ombra ha fotografato scene mai viste prima su pellicola. Per questo Frank sarà riconosciuto come un grande della fotografia.
Dopo che hai visto quelle immagini finisci per non sapere se sia più triste un jukebox o una bara. Perché lui fotografa ininterrottamente bare e jukebox – e i misteri dell’intermediazione, come il prete negro accucciato chissà perché sotto la pancia liquida e lucente del Mississippi a Baton Rouge, all’imbrunire o alle prime luci dell’alba, con una croce bianca di neve e i suoi incantesimi segreti, mai sentiti fuori del bayou. Oppure quella sedia in un caffè, col sole che entra dalla finestra e la avvolge di un alone sacro. Non avevo mai pensato che fosse possibile fissare tutto questo sulla pellicola e ancora meno che le parole potessero descriverne la meravigliosa complessità visiva.”
A giovedì con la prossima copertina!